Articolo di Cecilia Cerasaro
È la sera di sabato 11 dicembre. Noi ragazze e ragazzi di Dominio Pubblico siamo seduti ai tavoli all’aperto di un locale nel centro di Roma, poco distanti dal Teatro Argentina, dove abbiamo da poco assistito all’adattamento dei due atti unici di Eduardo De Filippo Dolore sotto chiave e Sik Sik, l’artefice magico, ultimo appuntamento datato 2021 del nostro abbonamento #nopresent con il Teatro di Roma.
Siamo un po’ delusi, dal momento che non siamo riusciti ad avere, prima dello spettacolo, un confronto con l’attore e regista Carlo Cecchi. Il dialogo con i diversi artisti in scena è sempre stato fondamentale per il nostro gruppo, e lo sarebbe stato ancor più con una figura del calibro di Cecchi, con alle spalle anni e anni di prestigiosa carriera.
Questa volta il confronto non c’è stato e a noi non resta che porci a vicenda gli interrogativi che avremmo altrimenti rivolto al regista e agli attori.
Lo spettacolo è parso a tutti noi una riproduzione abbastanza fedele delle opere di Eduardo, sia per l’adattamento dei due testi che per l’impeccabile recitazione di Angelica Ippolito, Vincenzo Ferrera, Dario Iubatti, Remo Stella e Marco Trotta, oltre che del maestro Cecchi.
Del resto ci aspettavamo di assistere ad una messa in scena classica di questi due soggetti che fanno ormai parte della nostra tradizione teatrale: Dolore sotto chiave, che parla di un marito che scopre che la sorella gli ha nascosto per mesi la morte della moglie pur di non addolorarlo, e Sik Sik – L’artefice magico, storia di un prestigiatore che per via di un imprevisto fallisce miseramente nel portare a compimento i propri numeri. La nostra curiosità non appagata si fa più forte nel momento in cui ci accorgiamo, confrontandoci, che questa rappresentazione sembra dividerci moltissimo.
Alcuni di noi, che non sono riusciti a farsi coinvolgere da un tipo di comicità giudicata un po’ antica, avrebbero voluto chiedere a Cecchi cosa lo avesse spinto a compiere scelte registiche così legate ad una tradizione ormai anacronistica.
Caro Cecchi, non è forse vero che da quando Eduardo ha scritto i due atti unici è passato molto tempo? Perché riportarli in scena tali e quali?
Forse, ipotizza qualcuno, i testi di Eduardo sono ancora troppo vivi nella memoria di alcuni spettatori e spettatrici più anziani perché si possano rimaneggiare in scena con la stessa libertà con cui vengono adattate le tragedie di Shakespeare, che appartengono davvero ad un altro tempo ben distante dal nostro.
Ma è vero anche, obietta qualcun altro, che i due testi così come sono, riportati fedelmente in scena dagli attori, sono riusciti lo stesso a smuoverci e toccarci, pur non avendoci strappato nella maggior parte dei casi più di risata a denti stretti. Qualcuno pronuncia la parola “amarezza”, sensazione rinvenibile in molti testi di Eduardo. Eppure attorno a noi molte e rumorose sono state le risate.
Caro Cecchi, per quale pubblico è stato pensato questo spettacolo?
Mentre sorseggiamo del vino rosso, si azzarda l’ipotesi che lo spettacolo non fosse destinato a persone della nostra età. In effetti nel pubblico, al contrario nostro, erano molti a ridere di gusto e alcuni, memori forse delle commedie di Eduardo trasmesse in televisione per anni, riuscivano addirittura ad anticipare le battute.
Avremmo voluto l’opinione di un attore di così grande esperienza, che ricopre un ruolo importante nel panorama teatrale nazionale, sull’attuale offerta culturale della nostra città rivolta a un pubblico giovane, sul tipo di testi drammatici e sulle compagnie che più facilmente trovano spazio sui nostri palcoscenici. C’è nei teatri di Roma qualcosa che sia pensato anche per noi? Qualche spettacolo fatto apposta perché i giovani lo vengano a vedere?
Ci viene il dubbio che forse ci si aspetta che le persone della nostra età a teatro non ci vadano proprio. Tra le folate gelide di vento della serata di dicembre siamo presi per un attimo dallo sconforto…
Non spetta forse ai maestri portare a teatro le nuove generazioni?
Questo avremmo chiesto a Carlo Cecchi, se avessimo potuto incontrarlo e confrontarci con lui. Ce ne torniamo a casa lo stesso contenti (e un po’ brilli) per aver, dopotutto, avuto l’opportunità di assaporare per qualche ora un’ atmosfera teatrale diversa, per aver potuto osservare da vicino un certo modo di fare teatro, ben legato alla tradizione e alla trasposizione fedele dei testi sulla scena. Non possiamo però dirci soddisfatti: C’è chi se ne farà una ragione… e Cecchi no.