Articolo di Sheila Mirabile
Infanzia. Sogno. Incubo. Dolore. Lo spettro dell’infanzia, di ciò che siamo stati, è un’immagine, un sogno che prima o poi ritorna alla mente di tutti; per alcuni con immagini felici, per altri con degli incubi, ma per la maggior parte di noi riemerge come un insieme confuso di entrambe le cose.
La domanda che spesso ci si pone è: le figure che hanno causato più dolore, in questo periodo così importante della nostra vita, possono determinare ciò che siamo?
La Classe, lo spettacolo di Fabiana Iacozzilli in scena al Teatro India di Roma dal 5 al 9 maggio, cerca proprio di trovare una risposta a tutto questo. Regista teatrale, drammaturga e direttrice artistica della compagnia La Fabbrica, Fabiana Iacozzilli sceglie di partire da una vicenda autobiografica per riflettere sul legame tra infanzia e età adulta, su come quel passato possa diventare una diretta conseguenza del presente.
Ispirato lontanamente a La Classe Morta di Kantor, se per questo grande artista il manichino rappresentava un cadavere, un mezzo passivo di rievocazione del passato, qui l’infanzia pulsa vivida grazie alle marionette create da Fiammetta Mandich, vere protagoniste della vicenda.
Immersi in un tempo sospeso, eccoci nella classe elementare di Iacozzilli e dei suoi compagni con tanto di lavagna e banchi di scuola, a osservare le prime lezioni, i primi piccoli passi verso il mondo esterno lontani da mamma e papà, ma anche le prevaricazioni della violenta suor Lidia che imprimerà per sempre il loro immaginario.
Sono passati trent’anni e la memoria dei vecchi compagni di classe, raccolta dalla Iacozzilli in audio-interviste è a volte nitida, ma anche vaga, eppure si ricompone pian piano come un puzzle, fra risate e dolore. Suor Lidia è descritta come una maestra grassa, cattiva e baffuta, ma qualche alunno è perfino disposto a salvarne l’integrità, qualcun altro no, riportando alla mente gli scherni gratuiti e la violenza di quella che fu la loro insegnante. In fondo tutti, stranamente, volevano solo farsi amare da quella maestra così rigida, Iacozzilli inclusa, tanto che al rifiuto di quell’amore non resta che odiarla.
Ecco allora, affiorare tutte le paure, le angosce, le ingiustizie, l’incapacità di comprendere fino in fondo di quei bambini, aspetti che trapassano attraverso gli occhi grandi, i tremori dei piccoli arti, le esclamazioni di questi pupazzi manovrati a vista dai performer (Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore, Francesco Meloni, Marta Meneghetti). Le marionette, con i loro volti assenti, ma distinte da caratteri, movenze, tic e personalità sembrano coprire uno spettro tanto ampio da comprendere l’infanzia intera, con tutti i suoi incubi e desideri, facendo esplodere la libertà di proiettare la propria vita e rendendo inevitabile e fortissima l’immedesimazione. Tra compiti, temi e interrogazioni, i quattro ragazzini mostrano una fragilità collettiva delicata e immergono gli spettatori in un ambiente indefinito dove il dato biografico più personale diventa un inquietante dolore universale.
«Le bambole mi parlano», dice ad un certo punto la regista romana da fuori scena, riconoscendo al teatro e alla sua scoperta avvenuta proprio durante una recita a scuola, su spinta della mostruosa Suor Lidia, il potere salvifico e catartico di esorcizzare i traumi.
Quando verso metà spettacolo si alza dalla platea ed entra in scena con sciarpe e cappellini di lana per vestire i suoi fantocci e proteggerli dall’inverno, è del bambino che siamo stati e che continuiamo a custodire dentro di noi che si sta prendendo cura, al netto di tutte le emozioni negative, delle botte ricevute, del male.
Gli attori de La classe morta giravano a suon di valzer, invecchiati attorno ai banchi di scuola, portando sulle spalle i bambini che erano stati, ossi di seppia di un passato cattivo, spoglie di un ineluttabile eterno ritorno. Qui invece, nell’ultima parte, si compie la catarsi.
Suor Lidia, il cui baffo nero è rimasto incastrato nel cuore della regista come una scheggia di gelo, ha avuto un compito forse positivo: fu proprio lei, infatti, per una Festa della Mamma compresa nel fatidico quinquennio 1983-88, ad affidare alla sua scolara inconsapevolmente prediletta, Fabiana, la regia di una piccola scena. Insomma, quello che fu e avrebbe dovuto essere fonte di degrado e denuncia per abusi di potere e maltrattamenti, si è trasformato, a distanza di tempo e senza che vittime e carnefici se ne siano resi conto, in una predestinata vocazione artistica.
Ritornare al Teatro India dopo così tanto tempo è stato strano. Chi in gruppo, chi da solo, il pubblico venuto a vedere lo spettacolo La Classe si trovava in uno stato di palpabile eccitazione.
Nonostante il bel clima che si era creato, molte persone continuavano a esprimere preoccupazione per la situazione che il teatro, i suoi lavoratori, ma anche noi spettatori stiamo vivendo. Seppur colti da queste preoccupazioni, ho percepito quell’atmosfera magica, propria del teatro, che mi era tanto mancata.
Con la scena finale di La Classe, possiamo affermare che quello che la Iacozzilli bambina sognava per la propria prima regia del 1988, va in scena adesso, a spazzar via tutti i nostri ieri, il tormento, l’incubo, il silenzio, gli occhi dilatati dei compagni feriti, e il valzer eterno dei traumi. Si esce col magone e ci si chiede alla fine se questa è la catarsi. Se rimane la bellezza. Se con tutto il dolore, il teatro insegna sempre a non aver paura.