È da ormai due stagioni teatrali che il team di Dominio Pubblico insegue la regista Emma Dante e il suo ultimo spettacolo Misericordia, come previsto dal nostro abbonamento ribelle Under 25 con il Teatro di Roma: da marzo 2020 infatti lo spettacolo è stato sospeso, come la maggior parte degli eventi dal vivo, dai cartelloni teatrali dopo il suo debutto al Piccolo di Milano, a causa della pandemia e delle regole di distanziamento sociale. Finalmente nella nostra ultima riunione di venerdì 29 gennaio, abbiamo avuto il privilegio di fare una chiacchierata estremamente piacevole e arricchente con una delle registe italiane più conosciute ed apprezzate in Italia e all’estero.
L’incontro stavolta è avvenuto di venerdì: giorno di Venere, pianeta della creatività, della comunicazione, e specialmente dell’amore. Quale artista migliore, se non Emma Dante, da incontrare proprio in questo giorno?! Con tanta agitazione, in quanto intervistatrice dell’occasione, inizio a raccontare le peripezie e la crescita umana e artistica della regista ai ragazzi. Tutto questo prima del suo arrivo. Ovviamente non perdo l’occasione di consigliare la visione del suo ultimo film Le Sorelle Macaluso, film che mi è rimasto nei pensieri per molti giorni dopo averlo visto. Arrivano finalmente le 18:00 e con loro la nostra tanto attesa regista, che nonostante il periodo difficile per tutti si presenta a noi con un bel sorriso e tanta voglia di conoscerci e farsi da noi conoscere. Parte anche la diretta streaming sulla pagina Facebook di Dominio Pubblico, ancora disponibile al seguente link: https://fb.watch/3rxPlx1vOi/
Accogliamo il suo arrivo con un video tratto dallo spettacolo Mpalermu dalla rassegna Teatro Incivile. Sulle note di “Radetzky March”, ci siamo gustati un estratto della sua prima opera teatrale… Concluso il video, si comincia!
Chiara Alonzo: Parlando del suo ultimo film Le Sorelle Macaluso, presentato alla 77ª mostra della Biennale del cinema di Venezia e che purtroppo ho potuto vedere solo sul telefono, vista la chiusura delle sale cinematografiche e non solo, ci piacerebbe sapere che cosa l’ha spinta, fra tutte le sue opere teatrali, a scegliere proprio questa storia da raccontare sul grande schermo. Quali sono state le grandi differenze di messa in scena e di direzione degli attori rispetto alla versione teatrale?
Emma Dante: Se l’hai visto sul telefonino non l’hai visto. Io capisco la situazione, ma il cinema va visto in sala e il teatro va visto nei teatri. Questa cosa ci tengo a dirla perché puoi immaginare il lavoro che c’è dietro ad un film: di fotografia, suono, colore… Quindi vederlo sul telefonino è come non vederlo. Ma ripeto: capisco il periodo storico e la difficoltà di vedere e reperire un film appena uscito in questo momento. Ho scelto di portare al cinema la storia delle sorelle Macaluso perché volevo dare a questa storia un orizzonte, un po’ d’aria. Con la versione teatrale, avendo avuto il limite del palcoscenico, ad un certo punto ho sentito l’esigenza di dare alle sorelle una residenza vera e propria. Per questo ho pensato che portarlo al cinema voleva dire arricchirlo e non farne una copia su schermo. Ho lavorato con le attrici come ci lavoro di solito. Posso lavorare anche tre settimane con gli attori e l’operatore prima di cominciare a girare, un po’ come faccio a teatro quando iniziano le prove. Poi ovvio che l’effetto che ne viene fuori è diverso. Io il teatro lo posso fare anche con due attori e una lampadina, il cinema no.
C.A.: Vero, grazie mille. Passiamo allora alla sua attività teatrale, e in particolare al suo ultimo spettacolo Misericordia, con il quale ha rinnovato la collaborazione con il Piccolo di Milano, e che purtroppo ha vissuto solo un mese di repliche prima di essere fermato dal covid. Lo spettacolo, che ho avuto la fortuna di vedere in quel mese di repliche al Teatro Strehler di Milano, racconta la vicenda ai margini della società di tre donne e un ragazzo problematico da loro adottato, tutti abbandonati al proprio destino, fatto di solitudine e violenza. Ci piacerebbe sapere da lei in primo luogo com’è nato lo spettacolo, per quali ragioni e con quali modalità, e poi se l’avvento del virus l’abbia portata a riconsiderare il lavoro artistico svolto, magari innescando riflessioni nuove e strettamente contingenti rispetto al presente in cui ci troviamo immersi.
E.D.: Questo spettacolo che tu hai citato è uno spettacolo molto importante e toccante, perché racconta la storia di un ragazzo disabile che viene cresciuto, allevato e adottato da tre donne, nessuna delle quali è la sua vera madre. Quindi l’atto di misericordia che fanno è puro, senza voler nulla in cambio. Non parlerei però di solitudine nel suo caso, al contrario c’è profonda solidarietà: i personaggi si aiutano gli uni con gli altri. Questo spettacolo, infatti, a me fa pensare alla libertà, nonostante sia una storia tremenda di degrado, prostituzione e miseria nera. Dico libertà, anche perché quando ho iniziato a lavorare con Simone Zambelli, che interpreta il ruolo di Arturo nello spettacolo, abbiamo iniziato a lavorare sul suo corpo e su un’ipotesi di volo, che dona leggerezza allo spettacolo. In questo momento sono ad un passo cruciale per il processo di Misericordia, perché lo spettacolo non ha ancora avuto sul palco la vita di cui necessitava, ma io ne ho già cominciato l’adattamento cinematografico.
C.A.: Nella sua intervista in Retroscena, programma televisivo di approfondimento teatrale
condotto da Michele Sciancalepore, lei stessa definiva Misericordia; proprio come un travaglio, un parto. Forse è anche da questo che viene fuori il concetto di libertà?
E.D.: Assolutamente sì. La storia nasce da un femminicidio, ovvero la mamma di Arturo che viene
uccisa da un suo cliente. Cosa che non si distacca per nulla, ahimè, dalla cronaca rosso sangue che tinge la nostra quotidianità. Ricordiamo che in tutto il mondo c’è una media di due femminicidi al giorno e che, se non verrà fatto qualcosa di serio molto rapidamente, il genere donna si estinguerà. Tornando allo spettacolo, è un parto nel senso che il personaggio di Arturo nasce difettoso. Come un burattino di legno, come Pinocchio; ma con l’amore di queste donne che lo crescono, piano piano diventa bambino. Alla fine dello spettacolo lo vestono per mandarlo in un istituto dove sicuramente starà meglio rispetto allo scantinato dove vive.
C.A.: E quando le donne si stanno per allontanare, dice la parola “mamma”.
E.D.: E si girano tutte e tre! A proposito delle famiglie tradizionali!
(Ridiamo)
C.A.: Recentemente è stato pubblicato edito da Rizzoli “Bestiario teatrale”, ultima sua opera di
narrativa, che raccoglie e racconta alcuni dei suoi precedenti lavori. Com’è nata l’esigenza di questa pubblicazione? Cosa l’ha spinta a raccogliere solo alcune delle sue opere all’interno del Bestiario?
E.D.: Sono circa dieci testi, c’è anche la “Trilogia della famiglia siciliana” che contiene il frammento che abbiamo visto di Mpalermu. Non mi ha spinto nulla in particolare a scrivere “Bestiario teatrale”. C’è da dire che il teatro io lo faccio senza i testi, o almeno arrivano alla fine, dopo di tutto. Quindi quando poi devo pubblicare un libro e scrivere un testo, per me anche quello è un travaglio. Devo in qualche modo tradire lo spettacolo, per trasporre il lavoro su carta e renderlo fruibile al lettore. Scrivere diventa complicato, perché manca il corpo, e per me se manca il corpo manca il respiro, perché non riesci a tradurre fino in fondo il tuo pensiero. Bestiario ha questo nome perché è legato alla parte selvaggia e istintiva del mio lavoro e della mia arte. La bestia selvaggia e istintiva incarna perfettamente l’essere primordiali e animali dei miei attori e delle mie attrici sulla scena. Quindi quando Rizzoli mi ha dato l’occasione di scrivere questo Bestiario l’ho fatto con tanta gioia quanta paura: paura di non riuscire a inserirci dentro tutte le sensazioni ed emozioni che si provano a teatro.
C.A.: Dal 18 al 22 gennaio 2021 Rai 5 le ha dedicato una programmazione settimanale dei suoi
più grandi successi di regia lirica. L’omaggio è cominciato con la Carmen di G. Bizet, sua prima esperienza nel mondo dell’opera che nel 2009 avviò la stagione lirica al Teatro alla Scala di Milano, per poi proseguire con L’angelo di fuoco di S. Prokof’ev, La voix humaine di F. Poulenc, Cavalleria rusticana di P. Mascagni e La Cenerentola di G. Rossini. A suo avviso, qual è la considerazione attuale del mondo teatrale da parte del servizio pubblico Rai?
E.D.: In questo caso, parlando di Rai 5, non si può dire che non abbia sempre dato spazio al teatro.
La programmazione di cui parli, all’interno della quale hanno mandato in onda i miei spettacoli ma anche
quelli di tanti altri artisti e artiste, propone un percorso molto importante dove ritrovare l’accesso alla
poetica di ciascuno degli autori proposti. Certo, andrebbe fatto sicuramente di più. Da questa pandemia noi lavoratori e lavoratrici dello spettacolo ne siamo usciti sconfitti, siamo stati considerati gli ultimi, non
portatori di prima necessità, siamo stati dimenticati. E ci siamo resi conto che questo paese, il nostro paese, che fino ad ora abbiamo raccontato fornendo tanto lavoro a tanta gente, ci ha considerati ultimi. E sentirsi ultimi perché lavoriamo per l’arte, seguendo un sogno che aiuta noi e chi ci guarda a sopravvivere, mi ha rivelato molto del mio paese e di cosa stiamo vivendo. Come lavoratrice dello spettacolo mi aspettavo una promozione in un momento così delicato, e non una bocciatura. E invece…
C.A.: Beh, una risposta la si ha avuta con il programma “Ricomincio da Rai 3”. Qual è il suo
giudizio complessivo sulla recente trasmissione che tanto ha fatto dibattere, condotta da Andrea Delogu e Stefano Massini, andata in onda a cavallo fra 2020 e 2021 in prima serata su Rai 3, alla quale anche lei ha preso parte nella prima delle quattro puntate previste?
E.D.: È stato importante come appuntamento perché tutto ciò che parla di teatro in televisione è
solo da osannare. Forse avrebbe potuto mettere un pò più il dito nella piaga e far emergere che nonostante ci siano ancora molti teatranti che continuano a provare, non vuol dire che non siano in difficoltà. Io per dire ero nella prima puntata in collegamento dal Teatro La Vicaria di Palermo dove stavo provando una fiaba che non so neanche se metterò mai in scena. Ma ci stiamo lavorando perché comunque sono modi per stare con la compagnia, per rafforzarsi e per non morire. Questo però non significa che, col fatto che stessi provando con la compagnia, io fossi in tutto e per tutto felice e spensierata. C’è stato un problema serio con la chiusura dei teatri, un problema che non può essere ignorato.
C.A.: La prossima domanda è proprio sulla fiaba che ha citato prima: “Scarpette Rosse” di Hans
Christian Andersen. In parte ci ha risposto dicendo che più di una volontà di messa in scena è stata una pratica di resilienza. Quello che mi viene da chiederle allora è perché ha scelto proprio questa fiaba di Andersen per resistere.
E.D.: Intanto perché io sono un’appassionata di fiabe. È appena uscito un mio libro infatti, pubblicato dalla Nave di Teseo, che si intitola “E tutte vissero felici e contente”. Questo perché con la mia compagnia facciamo anche teatro d’infanzia, dato che i bambini, per quanto mi riguarda, sono il pubblico più importante, quello di domani, un pubblico al quale fornire gli strumenti per affrontare la vita. Il teatro del resto serve a questo: fornire strumenti alle persone per vivere meglio e insieme. Quello di “Scarpette Rosse” mi sembrava un tema importante in un momento dove le scarpe non le possiamo mettere, dove i nostri vestiti stanno stipati negli armadi, e dove le scarpe non sono consumate perché non vanno più da nessuna parte. Quindi abbiamo riscritto questa fiaba, rititolandola “Scarpette Rotte”.
Un’ultima questione prima di salutarci: come si fa a mantenere viva e operativa una comunità in un periodo come questo dove la regola è la distanza sociale? Noi di Dominio Pubblico abbiamo avuto modo di incontrarci fisicamente una sola volta, grazie al Teatro di Roma, e poi abbiamo proseguito il nostro viaggio qui su Zoom. Di fatto il nostro gruppo si è conosciuto e continua a farlo solo su questa piattaforma. Quanta fiducia ripone in queste nuove modalità di relazione? È possibile fare teatro in questa maniera?
E.D.: Certamente no. E ci tengo a precisare che non lascerò mai che il covid diventi protagonista
della mia poetica, andando ad insozzare il mio lavoro e il mio pensiero. Sicuramente quello che succederà alle nostre scritture è che emergerà ciò che ha provocato questo virus: i silenzi delle città, il lamento della gente che muore da sola, la claustrofobia delle famiglie, costrette a vivere in pochi metri quadri senza poter uscire. E tutte queste cose, non prettamente collegate al virus in sé, ci modificheranno dentro. Io per dire, non avevo mai visto città come Roma, Milano e Palermo così deserte. Tutto questo emergerà nelle nostre opere in maniera naturale.
Per tornare alla tua domanda però, penso sia molto importante fare incontri come questi, perché è un
modo per tenere la testa viva e continuare a riflettere e progettare tutti insieme. Per me chi non progetta
non vive, per cui anche se lo fai virtualmente, nel mentre fai qualcosa. Non credo certo nel teatro in
streaming, e nonostante mi sia stata proposta una regia per lo streaming, l’ho rifiutata. Però ecco,
l’incontro si può fare, anche nelle stanze virtuali, anche dalla cintola in su, e serve a mantenerci vivi.
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Dopo aver tutti ringraziato Emma Dante per l’occasione fornitaci, terminiamo l’incontro con la visione del
finale della Carmen di Bizet, che ci lascia impressa nella mente un’immagine potentissima, quella di
duecento artisti in scena. Tutto questo nella speranza che il prossimo giugno, anche con l’inizio del nostro Festival estivo, permetterà a tutti noi di rivedere la luce, di uscire fuori a riveder le stelle.
Chiara Alonzo