“Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi”.
Basterebbe questa frase di Friedrich Nietzsche per esprimere l’essenza del vortice di movimenti, parole, emozioni che si è sprigionato sul palco del teatro India con i tre attori protagonisti de La Rivolta degli Oggetti. Sicuramente non si è trattato di uno spettacolo canonico in cui a prevalere sono state le parole ma è stata un’occasione di libertà in cui lo spettatore ha avuto la possibilità di immaginare, di dare un proprio senso alle immagini, a quei corpi che in maniera così incredibilmente naturale sono riusciti a creare con la propria “danza” un ordine da quello che all’inizio poteva essere un mare di oscurità.
Le parole tratte dall’opera di Majakovskij sono state una luce guida in questo caos apparente, una luce che è quella pura della poesia, dell’arte, del mezzo che lo scrittore russo tentava di usare per opporsi all’altra luce, quella dei lampioni, quella della modernità, della morte del pensiero. Con quest’opera il cantore della rivoluzione esprime due grandi paure: quella di sentirsi un escluso, un albatro della società che non riusciva a capire la portata innovativa delle sue idee e quella di vedere il confine tra gli uomini e le cose sempre più labile.
Il gruppo de La Gaia Scienza formato da Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari e Alessandra Vanzi è stato il primo a dar voce all’urlo del poeta russo convogliando il suo urlo nel loro, la sua ribellione nella loro. L’edizione contemporanea che non vede più protagonisti loro tre, allo stesso modo, cerca di esprimere il senso di incompletezza di un 2019 non molto lontano dal 1976, una contemporaneità con problemi simili a quelli che agitavano i ragazzi degli anni ’70.
Lo spettacolo del Beat72 era mosso dal desiderio di decostruire e di ricostruire, di cambiare un mondo vecchio, che andava avanti con dei paradigmi e che non riusciva più a contenere quel focolaio virulento di un’arte nuova, di un’arte che avrebbe rivoluzionato il mondo.
Il teatro delle cantine e degli spazi anticonvenzionali rompeva gli schemi e le barriere che impedivano alle arti di creare un amalgama, qualcosa di unito e non di diviso o separato. Anche la nuova edizione cerca di trasmettere un potente messaggio che se 40 anni fa era alla base di una generazione giovanile, oggi è stato un po’ perso di vista. Forse abbagliati dal mondo virtuale, dalla possibilità di avere tutto e subito, abbiamo smarrito il valore delle cose, la nostra dimensione umana, il contatto, il sentirsi corpo e non utente, la capacità e non la paura di provare emozioni.
I ragazzi sul palco, sfruttando il potere inesauribile dell’arte e del teatro, hanno fatto sì che i nuovi spettatori si rendessero conto di quanto sia salvifico e bellissimo essere consapevoli della nostra corporeità e non di essere dei semplici “oggetti viventi”. E se per salvarci dobbiamo conservare e alimentare quella follia che è stata il simbolo degli adolescenti e dei ragazzi dei decenni precedenti al nostro, non dobbiamo avere paura di usarla. Ricordiamocelo sempre.
Simone Amabili
Produzione: Fattore K. 2019
In coproduzione con Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Romaeuropa Festival 2019 e Emilia Romagna Teatro Fondazione
Foto intestazione © Olimpia Nigris Cosattini
Video e montaggio © Elisa Genna