Pensieri confusi riecheggiano nella mia mente, passano e vanno come nuvole, cercano un significante che non può arrivare. Saranno la stanchezza, l’euforia e i continui stimoli emotivi e intellettuali. Mi trovo in un paesino dalle antiche origini fatto di
Vicoli
Tegole
Persiane
Odore di cantina
Sapore di foie gras
Rucola
Vino
Birra
Sudore
Piccioni
Travi lignee
Rondini
Calma
Voci
Pacatezza
Mura medievali
Chiesa
Preghiera
Giardino lontano
Recinto
Paesaggio di colline;
fondale dipinto, microfono scarico, personaggi salgono e scendono dal palcoscenico come la risacca delle onde. Sogno e realtà si mescolano in un amalgama che può trovare senso solo al Chiostro di Palazzo delle Laudi, durante i concerti.
Nel portico l’aperitivo, uno spritz ed è subito Veneto e Milano, una colonna di pietra ed è di nuovo Sansepolcro. Attraverso il loggiato e mi accomodo su una sedia comoda nel cortile del chiostro -finalmente uno spettacolo che posso godermi senza spiaccicare il culo per terra, inarcare la schiena come una vecchia e non sapere dove minchia appoggiare le mani. Ho anche un tavolino davanti apparecchiato con la tipica bottiglia Kilowatt con tempera e sapone, un fiore, un posacenere. Davanti a noi due tappeti rossi apparecchiati con casse, microfoni, strumenti e musicisti; mi ricorda un po’ LUMe, quello della cripta che stava in Vicolo Santa Caterina a Milano, dove una generazione di studenti ha scoperto il jazz. Ed ecco che noi, qui, scopriamo, ancora una volta, la musica (comincio a pensare che, più degli impianti, siano i tappeti e la mancanza del gradino del palcoscenico a determinare la riuscita di un concerto).
Musica pura
Musica paura
Musica e basta
Musica senza testa
Musica infiltrante
Musica d’acqua
Musica bagnante
Musica geniale
Musica musicante
Nessun ballerino a darle forma, nessuna scena a fare da protagonista, nessuna cassa bluetooth a gracchiare le note. La nostra ora d’aria. Ci è concesso di abbassare le difese: si spegne l’area del cervello che si occupa di stare attenta e quella atta a farti sonnecchiare durante gli spettacoli. Improvvisamente, cavolo, si spegne il cervello proprio. Ma non è che diventiamo stupidi. Diventiamo esseri emotivi. Per qualcuno è più difficile perdere completamente lo spirito critico e il giudizio con il ritmo di fruizione a cui siamo sottoposti in questi giorni, ma i musicisti -dio gratie- aiutano.
C’è stato un concerto in particolare che ha esposto l’anima di tutti: Fernando Saunders.
Mi sento di fare un’operazione un po’ scema con questo tentativo di descriverlo con le parole, ma ormai sono arrivata a 2531 battute quindi tanto vale, e siccome sono già bloccata, più che dipingere i musicisti, mi butto sull’esperienza personale.
A un certo punto, sarà stato circa quasi metà concerto, ho immaginato le anime, le numerose anime che risiedono dentro ognuno di noi, levarsi in cielo; un cielo azzurro come quello che ci faceva da tetto; le anime erano come atmosfera umida, si muovevano intrecciandosi, giocando, rincorrendosi su, sempre più in su, accompagnate dalle note.
Ho immaginato, ricordato o forse proprio sentito le anime della donna che ho amato fluttuare sopra di noi e abbracciare le mie. Ricordavo il suo sguardo e soprattutto il suo orecchio, così sensibile alle sfumature del cuore. Ricordavo tutti i pomeriggi passati insieme nei prati a fantasticare sui viaggi che avremmo fatto insieme; ricordavo le notti a passeggiare sulla Luna e mi sono chiesta quando ho smesso di pensare a lei guardando quella palla bianca. Non abbiamo viaggiato mai assieme, alla fine, ma siamo andate sulla Luna ogni notte. Ogni notte siamo lì. A volte, solo, su versanti diversi.
E mentre mi perdevo tra crateri spaziali inseguendo vecchie emozioni la musica di Fernando e dei suoi musicisti ci portava in alto, sempre più in alto e sempre più lacrime scendevano dai nostri volti e sempre più vibrazioni ci ammorbidivano la pancia e a un certo punto abbiamo pure creato un fossile di coro gospel e tutti cantavamo “Happineeess…” un po’
Imbarazzati
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